Teatro

Reggio Emilia: Aprire il teatro alla città!

Reggio Emilia: Aprire il teatro alla città!

E' davvero giunto il momento di un grande confronto sul teatro e la cultura. Quando si parla di teatro, in particolare, si rischia sempre di usare tinte forti. D'altronde gli amanti di teatro adorano le passioni e i duelli. E' possibile, tuttavia, tentare di parlarne, senza esser immediatamente collocati, nella tenzone, o di qua o di là, dalla parte dell'accusa o dalla parte della difesa, spesso d'ufficio?Vorrei dire la mia partendo da un contributo, apparso recentemente sulla stampa locale, dell'amica on. Elena Montecchi, che trovo molto ben informata sul passato e sul presente dei nostri teatri. Il suo articolo, tutto difensivo della bontà delle scelte fatte ieri, oggi e forse anche domani, mi sembra però troppo ispirato da una valutazione idilliaca e frutto di quell'esigenza di schierarsi alla quale facevo riferimento. Sembra quasi che, da quando è a Roma, l'amica Elena, più che sentir parlare di guerre e finanziarie, di Berlusconi e di Prodi, di tasse e di devolution, abbia sentito parlare di noi, del nostro bel teatro, di "Musica e realtà", di Pizzi, di Bigonzetti, di Calatrava e delle piazze di Guastalla, e appunto degli Abbado. E come ai tempi di Prampolini tutti si informavano per sapere dove mai fosse quell'isola felice, adesso tutti si chiedono dove mai sia questo mondo reggiano, il migliore dei mondi possibile. Beh, se le cose stanno così, allora non resta che assentire, applaudire e fregarsi le mani per quel paradiso culturale nel quale siamo capitati, vissuti e nel quale continuiamo, per grazia di Dio, a vivere. E se qualcuno non è contento di vivere in Paradiso è un tipo davvero originale, quantomeno prevenuto e soprattutto "provinciale". Ecco, questo aggettivo mi ha stupito. Ho sempre pensato che fosse provinciale l'atteggiamento di chi ha un complesso di inferiorità e di subalternità rispetto ai grandi nomi e ai grandi eventi, di chi si intimidisce, come appunto capitava nei centri di provincia, quando un nome noto s'avanzava al cospetto di qualcuno. Si tiravan giù il cappello e piegavano il capo. Adesso si è invece inventato un nuovo concetto di provincialità. Quello di chi contesta i grandi nomi e i grandi eventi. Il chè è esattamente il contrario. Tra il tanto amore per il nuovo, vabbè, prendiamo e portiamo a casa anche questa novità. Ma vi è una seconda cosa che mi ha colpito. Quella di considerare il costo della cultura come una variabile indipendente, sì, proprio come i salari secondo la Cgil qualche tempo fa. Questo mi stupisce alquanto. Anche perchè ricordo che la Giunta comunale di Reggio nel 1988 non considerò affatto i costi delle opere di Pizzi secondari nel giudizio complessivo delle stesse (vero Guido Zannoni?) e ricordo bene che Luca Ronconi è stato sottoposto a un vero processo dopo "Il dialogo delle Carmelitane" del 1989, che fece saltare a piè pari il bilancio dell'Ert. Adesso si dice che è ora di finirla nel chiedere quanto costa la cultura. Ma davvero? Diciamo allora che un uomo di teatro, solo perchè ritiene di fare un capolavoro, può spendere qualsiasi cifra e che i cittadini, perchè alla fine sono loro che pagano, devono accettare qualsiasi sacrificio per ripianare i disavanzi, mentre coloro che amano il teatro devono sobbarcarsi biglietti da capogiro, neppure sufficienti per dimezzare le perdite? Strano modo di impostare il problema, che non è solo reggiano, del rapporto tra qualità e spesa nella produzione teatrale, no? Allora dico tre cose. 1) Il rapporto tra eventi e nomi (e certamente Claudio Abbado è un nome, uno dei più grandi nomi della musica internazionale) con i costi mi pare il più squilibrato che si sia mai verificato nella storia del teatro. Se è vero quel che si dice, cioè che la produzione de "Il flauto magico" ha un costo di 1 miliardo e mezzo di vecchie lire, per due sole recite reggiane, sostengo, senza tema di smentita, che si tratta della più grande spesa mai sostenuta dai nostri teatri, di ben tre volte superiore a quella delle opere del cosiddetto periodo Pizzi. Ne vale la pena? Oltretutto, vale la pena squilibrare così tanto la spesa delle stagioni a vantaggio di quella lirica e a scapito delle altre, in particolare di quella di danza, caro Ottolini? Io dico di sì solo se si dimostra che questa spesa ha un ritorno: di ricavi, di immagine, di ricaduta economica. Se il teatro da silente divenisse parlante ed esponesse anche i conti, alla luce del sole, come fece il teatro nell'epoca, tanto decantata, di Pizzi, potrebbe chiarirlo. 2) La decisione di espellere, per la seconda volta consecutiva, dal cartellone lirico tutta la tradizione operistica italiana ottocentesca e anche novecentesca, mi trova fermamente contrario.Non è riscontrabile, nella storia delle stagioni del nostro teatro, una scelta del genere. Sfogliando i libri prodotti dal Municipale (mi piace continuare a chiamarlo così perchè la decisione, questa sì provinciale, di intestare nel 1980 a un grande attore di prosa un teatro musicale l'ho sempre trovata di una violenza inaccettabile) risulta che mai nella stagione lirica, nemmeno nel turbolento 1968, e men che meno nei cosiddetti anni di Pizzi, sono mancate opere della grande tradizione italiana. Ma che razza di scelta culturale è quella di rinunciare a Verdi, Puccini, Donizetti, Bellini, Rossini? Ma chi ha il coraggio di difenderla come scelta culturale? Ma di quale cultura mai si sta parlando? La giudico una decisone punitiva rispetto alla nostra gente, agli appassionati di lirica che vanno rispettati, ai gusti popolari che non vanno umiliati, come purtroppo sta avvenendo adesso a Reggio, sulla base di una parodia del nuovo, che è invece il metodo più vecchio possibile di stabilire i criteri di un programma. Perché, a proposito di nuovo, non si allestisce un'opera con giovani cantanti, magari con quelli che hanno vinto il "Masini"? Perché non si produce il "Moby Dick" di Gentilucci? E perchè, a proposito di novità, non si va alla ricerca di un "Cristoforo Colombo" o di una "Germania" del reggiano Alberto Franchetti? E perchè non si va alla riscoperta del verismo, oggi ancora parzialmente in disuso? Mah… 3) Giudico discutibile che l'attuale direttore artistico dei nostri teatri, che è artista di ottima levatura e che personalmente ho molto apprezzato l'anno passato in una sua regia, sia appunto anche il regista di due opere del cartellone di quest'anno. Sia ben chiaro, io non ne faccio tanto una questione di conflitto di interessi. Ma come si disse a Paolo Barbacini, quando era consulente del teatro, "non è opportuno che chi dirige o amministra scelga poi se stesso". Vedo che questa osservazione viene ritenuta quasi una bestemmia o peggio un insulto. Mi dispiace, perchè altro non è che la tutela di una vera professionalità. Ha ragione l'assessore Giovanni Catellani. Bisognerebbe fare in modo che tutte le migliori energie cittadine sostenessero i teatri. E se il vertice dei teatri si aprisse ad una discussione con i veri appassionati e la gente che al teatro vuol bene avrebbe da trarne solo benefici. Il teatro ha bisogno di unità, non di separazioni e divisioni. La città deve ritenere il teatro come cosa sua. Bene dunque il convegno a cui si riferisce a Bonafini. E senza rimpiangere il passato, che è operazione troppo comoda, mi viene in mente il teatro di quanti, da Reverberi a Negri, a Degani, a Garavaldi, a Boiardi, a Pagani, a Rinaldi, a Scolari, a Fangareggi e anche a mio padre (che fu tra coloro che vollero Claudio Abbado a Reggio in quel Faust del 1963), al di fuori delle divisioni politiche, discutevano per notti intere sui cartelloni e viaggiavano a sentire tenori, soprani e orchestre in tutta Italia e poi dialogavano da pari a pari con registi, con direttori, con cantanti. Senza atteggiamenti provinciali e senza agenzie. Come quando due di loro andarono in Veneto a parlare col grande Del Monaco, che disse: "A Reggio non vengo, siete un piccolo teatro". E loro risposero. "Maleducato, noi ne facciamo volentieri a meno". Provinciali chi?